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Un capitolo del “Rapporto dei 20”, in corso di pubblicazione.

Europa: un ristagno annunciato
Servono risposte nuove sull’economia

Paolo Guerrieri Paleotti

Introduzione

Dopo sei anni dallo scoppio della Grande crisi, le condizioni della stragrande maggioranza delle economie dell’area euro restano a dir poco drammatiche, con 27 milioni di disoccupati.
Non c’è dubbio che la maldestra gestione della crisi dell’euro da parte dei governi nazionali, guidati dalla Germania, abbia fortemente contribuito a questo stato di disagio e alla crescita della protesta in Europa col voto delle elezioni politiche dello scorso maggio. Servirebbero pertanto delle risposte nuove che siano all’altezza delle grandi sfide da fronteggiare. A partire dalle fallimentari politiche economiche d’austerità fin qui messe in campo.

In queste condizioni il rischio più grave è un lungo ristagno economico dell’area europea, che potrebbe prolungarsi per tutto il decennio in corso e che favorirebbe un ulteriore rafforzamento dei partiti e movimenti euroscettici. Fino a arrivare a minacciare da vicino la stessa sopravvivenza del processo di integrazione europea. Le politiche fin qui perseguite non sono state in grado di innescare e stimolare un nuovo durevole ciclo espansivo a causa del circolo vizioso in cui sono precipitati i paesi europei e da cui non riescono a uscire.

Per fronteggiare scenari così inquietanti la soluzione non è ovviamente uscire dall’euro come propongono oggi in modo irresponsabile gli euroscettici, ma cercare di uscire dalle politiche sbagliate condotte finora, marcando una profonda discontinuità. Come si dirà qui di seguito servono interventi mirati e misure finalmente efficaci in direzione del rilancio della crescita e della occupazione, a partire da una maggiore simmetria nei processi di aggiustamento e un forte ciclo di investimenti in infrastrutture materiali e immateriali, da favorire a livello europeo e nazionale.

Solo una volta avviato un tale profondo rinnovamento delle politiche adottate, come via di uscita dalla crisi, sarà poi possibile rilanciare un ulteriore approfondimento e la necessaria revisione della struttura istituzionale dell’Ue. In definitiva il recente voto europeo potrebbe trasformarsi in uno shock salutare a condizione che riesca a produrre modifiche profonde nelle politiche e strategie fin qui adottate.

L’euro è salvo

Un importante risultato raggiunto è che l’euro è salvo dal punto di vista monetario anche se la situazione economica di molti paesi europei resta critica, con ventisette milioni di disoccupati, appena sfiorati per ora dalla fragile ripresa in corso in alcune aree europee. Si potrebbero fotografare in questo modo le condizioni dell’Europa a qualche mese dalle elezioni europee che hanno favorito un massiccio voto di protesta a favore dei partiti e movimenti in varia misura euroscettici. A partire da Francia e Gran Bretagna, ove rispettivamente il Front National di Marine Le Pen e l’Ukip di Nigel Farage hanno ottenuto consensi record e scalzato i partiti tradizionali. Risultati a sorpresa anche in Spagna, dove sia il Partido Popular che il PSOE sono arretrati, e per la prima volta i due partiti insieme non raggiungono il 50% dei voti. Solo la Germania e l’Italia hanno fatto eccezione, pur se per ragioni diverse.
Profondamente eterogenei, i movimenti e partiti di protesta – da noi il Movimento cinque stelle – hanno un unico punto in comune ed è il sentimento antieuropeo. Una sorta di profonda avversione nei confronti non solo delle istituzioni europee ma dei principali diritti e valori fondanti l’Europa. In prima fila la guerra contro l’euro, a cui sono attribuite, in modo confuso e strumentale, tutte le cause della drammatica crisi in corso.

Eppure la crisi finanziaria dell’euro, intesa come rischio di una sua definitiva implosione, è ormai alle nostre spalle. Almeno così sembrano aver deciso i mercati finanziari che nell’ultimo anno e mezzo hanno assicurato una sorprendente stabilità e un abbassamento degli spread ai livelli precedenti la crisi. La spiegazione di tutto ciò sta, innanzi tutto, nel piano della Bce deciso a metà del 2012 (OMT) a favore dell’acquisto in quantità illimitata di titoli del debito pubblico dei paesi più in difficoltà. Per fronteggiare la crisi di liquidità di molti paesi, serviva un prestatore di ultima istanza e, pur con due anni di ritardo dallo scoppio della crisi, il programma di Mario Draghi e della Bce, sostenuto politicamente da Angela Merkel, è pienamente servito allo scopo. Senza finora spendere un euro, è riuscito a convincere i mercati che la sopravvivenza della moneta unica non era più in discussione e che nessun paese avrebbe dovuto abbandonare l’euro. Pur se i rischi di future turbolenze finanziarie non sono certo azzerati, è altamente probabile che non si tornerà più agli stratosferici livelli di spread dei primi anni della crisi europea.

L’economia europea ristagna

L’euro è in salvo, dunque. Non lo sono, tuttavia, la maggior parte delle economie europee, e la stessa Germania rischia un futuro di ristagno. A sei anni dallo scoppio della Grande crisi, le prospettive economiche dell’area Euro mostrano un primo fragile miglioramento, dopo oltre sei trimestri di contrazione. E’ una inversione di tendenza, ma la ripresa tarda a manifestarsi e, comunque, sarà modesta e non basterà né a rilanciare l’occupazione né per una vera uscita dalla crisi. Detto in estrema sintesi: i mercati non sono autonomamente in grado di generare una ripresa rapida della domanda,  ma non riescono a generare neppure l’aggiustamento strutturale dal lato dell’offerta finche non si sarà consolidata una ripresa della domanda

In effetti l’aumento inarrestabile in questi ultimi quattro anni e nella maggior parte dei paesi europei della disoccupazione, soprattutto quella giovanile, rappresenta una delle più gravi conseguenze del protrarsi della crisi dell’area euro. Nella fase attuale in media un quarto dei giovani europei è senza lavoro e ha di fronte prospettive a dir poco scoraggianti di trovare un impiego. Il problema della disoccupazione unitamente alle misure per affrontarla e combatterla è divenuta così una grande emergenza per l’Europa.

In queste condizioni assai poco giustificato appare l’ottimismo che si è diffuso – anche a Bruxelles – sulle possibilità che ci sia una ripresa e si trasformi rapidamente in un percorso di crescita stabile e elevata. Ci si è convinti, in estrema sintesi, che le politiche fin qui adottate e rappresentate da un misto di austerità fiscale e riforme strutturali stiano funzionando. Hanno bisogno solo di più tempo per produrre i risultati attesi. Di qui la novità di una maggiore flessibilità nell’interpretazione delle regole e politiche di aggiustamento, in termini sia di tempi che di modalità di applicazione, con differenziazioni tra i singoli paesi. Francia e Spagna, ad esempio, hanno di recente usufruito di più generosi spazi di tempo per i loro programmi di consolidamento fiscale.

Ma si tratterebbe in questo caso di una evoluzione nelle politiche europee di gestione della crisi, non certo di una svolta vera e propria, per quanto necessaria e da molti auspicata. La crisi europea in effetti è parte di una crisi globale ma è soprattutto il risultato di una terapia sbagliata – le politiche di austerità – discesa da una diagnosi altrettanto sbagliata  – quella delle irresponsabilità fiscale dei paesi debitori. Le politiche messe in campo in Europa dai governi prevalentemente di centrodestra, basate su misure fiscali restrittive e sulle ristrutturazioni d’offerta, in chiave di maggiore concorrenza e apertura dei mercati, non hanno funzionato.   A causa soprattutto di tali politiche i paesi più indebitati – e tra questi anche l’Italia – si sono avvitati in questi ultimi anni in un circolo vizioso, in cui aumenti di imposte e riduzioni di spese hanno depresso il reddito e impedito al rapporto Debito/Pil di ridursi. Ne è derivata una prolungata fase recessiva, la seconda dopo quella del 2008-2009, da cui si fatica a uscire.

L’asimmetria degli aggiustamenti

La maggiore flessibilità auspicata da Bruxelles non rimette in discussione questa  linea di austerità fiscale e riforme nazionali che caratterizza ormai da tempo l’approccio comunitario. Più che essere abbandonata, si può dire che l’austerità sarà in questo modo semplicemente diluita. Un cambiamento più radicale, d’altra parte, non viene ritenuto necessario visto che le performance dei paesi più indebitati – come è stato già ribadito a livello ufficiale anche negli ultimi Consigli europei – sono decisamente migliorate e stanno favorendo tanto un riequilibrio dei disavanzi commerciali quanto un effettivo processo di aggiustamento dei conti pubblici.

Se è vero, tuttavia, che in questi ultimi due anni si è registrato un relativo processo di aggiustamento all’interno dell’area euro; è altrettanto vero che l’onere si è interamente riversato sulle spalle dei paesi in disavanzo e più indebitati. Le conseguenze negative sono state, prima, un effetto deflazionistico e recessivo; poi, nella fase presente, processi di ristrutturazione dei paesi più indebitati basati su svalutazioni interne e una ripresa tutta trainata dalle esportazioni. E’ una base troppo fragile – anche tenuto conto delle pronunciate tendenze deflazionistiche in corso – per innescare un sentiero di crescita sostenibile e rilanciare l’occupazione.

Se non vi saranno mutamenti, la prospettiva più realistica  è quella di un lungo ristagno dell’area europea, che potrebbe prolungarsi per gran parte del decennio in corso. In un tale contesto anche le necessarie riforme strutturali da portare avanti nei singoli paesi rischiano di essere rimesse in discussione e si profilano due maggiori rischi correlati: la necessità di ristrutturazioni di qui a qualche tempo degli enormi stock di debito accumulati dai paesi periferici; l’ulteriore rafforzamento dei partiti e movimenti nazionalistici e euroscettici, come già avvenuto nelle ultime elezioni europee.

Per fronteggiare scenari così inquietanti la soluzione non può essere certo rappresentata – come rivendicato oggi da molti gruppi euroscettici – dall’uscita di singoli paesi dall’area euro o dal totale smantellamento della moneta unica. I costi sarebbero drammatici in entrambi i casi. Se mai si arrivasse a quella che viene contrabbandata come la panacea degli attuali mali delle economie europee ovvero la confusa uscita di uno o più paesi dall’euro, ci troveremo a fronteggiare in realtà la madre di tutte le crisi finanziarie, una vera e propria tragedia economica.

Come uscire dalla trappola del ristagno?

La soluzione in realtà non è uscire dall’euro, ma uscire dalle politiche sbagliate condotte finora, marcando una profonda discontinuità. In particolare, serve innalzare la dinamica reale di crescita dell’area euro nel suo insieme con un’energica azione di intervento simultaneamente su più fronti.

Innanzi tutto la politica monetaria della Bce che deve varare al più presto un proprio ‘quantitative easing’ per scongiurare le tendenze deflazionistiche in atto.  Nello scorso Giugno la BCE ha adottato una serie di misure dirette a contrastare le tendenze deflazionistiche in  atto: una riduzione dei tassi a breve, remunerazioni negative sui depositi in eccesso delle banche e una nuova serie di finanziamenti a lungo termine (4 anni circa) per gli istituti di credito, ma solo se impegnati nel finanziamento dell’economia reale. In prospettiva, inoltre, quando il mercato per le cartolarizzazioni dei crediti alle società produttive si sarà sviluppato adeguatamente, la BCE si è detta pronta a sostenerli sul mercato.
Nell’annunciare le nuove misure il Presidente della BCE Mario Draghi ha già preannunciato ulteriori interventi se le tendenze deflazionistiche dovessero persistere. Ed è molto probabile che siano necessari e che la BCE debba arrivare a varare un vero proprio “quantitative easing” ovvero un programma di acquisti dei titoli del debito pubblico dei paesi dell’Eurozona così da scongiurare un rischio di default dei singoli paesi. In effetti le misure decise, per quanto assai utili, difficilmente potranno riportare la bassa dinamica inflazionistica (lowflation) dell’Eurozona alla normalità. Com’è noto, il passaggio da un prolungato periodo di bassa inflazione alla deflazione vera e propria avviene in modo irregolare lungo il sentiero tipico di un circolo vizioso. Si parla in effetti di spirale deflazionistica come di un processo che si autoalimenta e che molto difficilmente si riesce a contrastare una volta innescato. La drammatica esperienza del Giappone lo conferma.

In secondo luogo è sulle politiche economiche dei Governi europei che il rilancio della crescita in Europa dovrà far leva. In particolare, oltre che sul miglioramento della competitività e sulla piena attuazione delle riforme strutturali nei singoli Paesi, sullo sfruttamento delle potenzialità del mercato interno europeo che deve diventare il nuovo baricentro del rilancio dello sviluppo europeo. L’eurozona non è una piccola economia aperta, ma il secondo spazio economico  a livello mondiale per dimensioni di reddito prodotto e ricchezza accumulata. Il modello di crescita export-led della Germania non può essere dunque esteso all’intera area europea. La domanda estera e le esportazioni verso il resto del mondo non sono in effetti in grado di compensare la perdurante debolezza del mercato interno europeo, troppo grande e ricco per poter essere sostenuto dal consumatore americano e/o cinese.

Per sfruttarlo occorre l’uso di strumenti e meccanismi ad hoc. Ne cito soprattutto tre: meccanismi di aggiustamento simmetrici tra paesi debitori e paesi creditori che impongano sia ai paesi in deficit sia ai paesi in surplus (in primo luogo la Germania) misure di aggiustamento tra loro compatibili. In particolare nel caso della Germania si tratta finalmente di imporre – dopo anni di infrazioni – la riduzione dell’enorme avanzo commerciale accumulato (7 punti del PIL) con una espansione della domanda interna a beneficio della ripresa dell’intera area euro.
Poi vi è il completamento dell’unione bancaria, con un meccanismo comune di gestione e risoluzione delle crisi perché a pagarle non siano più i cittadini, come avvenuto finora, e si arrivi a rompere quel circolo vizioso tra la crisi del settore bancario e dei debiti sovrani, che è stato il vero motore della crisi europea in questi ultimi anni. Allo stesso tempo vanno varati interventi per regolare la finanza, che deve mettersi al servizio dell’economia reale.

Servono investimenti europei nei nuovi motori della crescita

In terzo luogo dobbiamo completare il mercato interno in Europa anche attraverso la creazione di uno spazio comune di ricerca e innovazione unitamente a investimenti europei da finanziare in comune in servizi e aree strategiche. A questo riguardo un nuovo ciclo di crescita sostenibile nell’area europea richiede a medio termine significativi incrementi della produttività, che a loro volta richiedono una forza lavoro più istruita e competente, infrastrutture materiali e immateriali più efficienti, un contesto produttivo più favorevole all’innovazione tecnologica e alle energie rinnovabili.
Per realizzarle servono riforme strutturali nei singoli paesi unite a investimenti a medio e lungo termine, pubblici e privati, in una serie di comparti che potrebbero trasformarsi in nuovi motori della crescita (puntando su ricerca, energie alternative, tecnologie eco-compatibili, istruzione, comunicazione). Per legittimare un tale approccio, si tratterebbe di associare tradizionali argomenti Keynesiani che enfatizzano l’impatto della domanda agli effetti di medio e lungo termine cosiddetti Schumpeteriani che guardano all’offerta e alla ‘distruzione creatrice’ che stimola innovazione e crescita.

Tutte cose che necessitano ovviamente di nuove risorse da investire a medio e lungo termine, pubbliche e private, ma che si possono trovare volendolo. Introducendo ad esempio golden rule negli accordi europei sulle politiche di rigore, come il fiscal compact, modificando regolamentazioni finanziarie oggi vessatorie sugli investimenti a medio e lungo termine e che premiano la speculazione finanziaria, e ancora con politiche di ricomposizione dei bilanci pubblici dei paesi attraverso ristrutturazione della spesa pubblica, che significa riduzione spesa corrente e più spese in conto capitale.

Tutto ciò comporta riaffermare quel delicato giusto equilibrio tra mercati e fornitura di beni pubblici che è alla base dell’efficiente funzionamento di un’economia di mercato orientata alla crescita. Un equilibrio che negli ultimi decenni la fase della globalizzazione senza regole ha spezzato generando crescenti instabilità, disuguaglianze e una eccessiva concentrazione del potere economico e finanziario nelle mani di una ristretta élite.

È necessario ristabilirlo non certo tornando alle forme di statalismo degli anni Sessanta e Settanta, ma promuovendo nuove politiche di intervento pubblico del tipo prima delineato. Solo mettendo in campo queste rinnovate strategie sarà possibile cominciare a ridurre le disuguaglianze e rilanciare la crescita globale e, attraverso essa, rispettare i vincoli, sempre più stringenti, derivanti dal necessario consolidamento dei debiti pubblici. Il che comporterà la messa in comune dei rischi da debito, fino all’Unione fiscale legata alla mutualizzazione del debito europeo e l’emissione di eurobond. D’altra parte solo un ritorno alla creazione di ricchezza e occupazione può in effetti assicurare nell’area avanzata il graduale riassorbimento dell’eccesso di debiti esistente.

E’ necessaria più Europa

Solo agendo su più fronti e con politiche di sistema quale quelle prima indicate si può sperare di imprimere una maggiore dinamica all’anemica fase di espansione in corso e offrire più margini di manovra ai processi di aggiustamento dei singoli paesi. Una strada interessante ma che si presenta tutta in salita. Non è purtroppo affatto scontato che i governi europei vogliano veramente muoversi nella direzione del cambiamento e di una maggiore coesione. Anche perché le divergenze e la reciproca diffidenza tra Nord e Sud sono aumentate in questi anni di crisi. Dai dibattiti di questi giorni si è intuito che molti politici europei non hanno ancora capito il messaggio profondo derivante dalle elezioni dello scorso 25 maggio, che ha segnato un allarmante distacco tra l’Europa e i suoi cittadini

Ma per rinnovare le politiche è necessario, tuttavia, rinnovare anche i luoghi dove esse vengono decise. A questo scopo è necessaria una Governance più equilibrata e meno dipendente dal potere del Consiglio europeo e dei paesi più forti (leggi Germania), che hanno preso in questi anni tutte le decisioni più importanti. E’ dunque necessaria più Europa, ovvero il rilancio dell’integrazione, a livello bancario e fiscale come si è già detto, così da creare un’unione economica e monetaria, con una Bce vera banca centrale e una governance più solida e meno dipendente dai rapporti tra governi nazionali.
E, in prospettiva, una vera unione politica, presupposto di una rinnovata solidarietà tra i paesi membri. Non sarà facile in un’era di euroscetticismo crescente. Ma è un dato di fatto che gli Stati nazione europei non hanno più gli strumenti adeguati per governare le loro economie, perché troppo piccoli nella nuova economia-mondo. E se vogliamo un rilancio del  modello europeo di economia sociale di mercato questo sarà possibile solo in un’ottica europea. Per questo è importante un rafforzamento dei meccanismi democratici e rappresentativi in Europa.

Certo, non sarà facile, in un’era di euroscetticismo crescente. Ma bisogna far presto, prima di vedere definitivamente compromesse le prospettive future dell’intero progetto di integrazione europea.