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Una mia intervista sulle politiche economiche da adottare per cercare di uscire dalla crisi italiana e europea

D. Le questioni dello sviluppo e delle politiche industriali vanno crescendo d’importanza nel dibattito  politico, anche in relazione al permanere di una situazione economica molto pesante. Le parole “politiche keynesiane” sono tornate ad avere una ragion d’essere. E’ un passaggio positivo ma del tutto insufficiente e c’è il rischio che, come per la parola “riforma”, anche in questo caso ognuno intenda qualcosa di diverso da quello che intende un altro .
Vogliamo incominciare cercando una breve definizione di questa politica keynesiana letta ed interpretata alla luce della situazione nazionale attuale?

R. La riscoperta di Keynes e delle politiche keynesiane è avvenuta a seguito della Grande crisi e del clamoroso fallimento delle politiche ortodosse neoliberiste. Keynes va oggi reinterpretato  alla luce della fase peculiare in corso che per l’intera area più avanzata – anche se l’area Euro presenta sue specificità su cui possiamo poi tornare – comporta una crescita nettamente inferiore alle medie del passato (anche negli Usa), unita alla prospettiva di un vero e proprio ristagno a medio termine. Si è aperta una fase di interregno per l’economia mondiale, dagli sbocchi tuttora aperti e incerti, che rischia di produrre per svariati anni stagnazione  ed elevata disoccupazione in tutta l’area avanzata. Lo sostengono ormai anche molte Organizzazioni ufficiali che parlano apertamente del rischio di un ‘ristagno secolare’. Le cause di tutto ciò sono molteplici, domestiche e internazionali allo stesso tempo, ed è importante rilevare che hanno natura ciclica e strutturale. Con un flash si può sintetizzare che negli ultimi due decenni si è determinata una svolta epocale – accelerata dalla crisi – verso una economia mondiale tripolare. Essa è caratterizzata dalla presenza, oltre all’asse euro-americano, di un terzo polo rappresentato dall’Asia del Pacifico, in primo luogo dalla Cina, che ha reso molto più difficile garantire una dinamica di crescita elevata e sostenibile a livello mondiale come avvenuto nei decenni passati a causa del passaggio da un paradigma di modello di crescita ad un altro profondamente diverso. I sistemi capitalistici nazionali stanno riscontrando forti difficoltà ad adattarvisi, rivelando la loro incapacità di tornare a produrre elevato reddito e piena occupazione. La terapia da applicare per evitare un prolungato ristagno dell’attività economica globale richiede pertanto nuove strategie di politica economica oltre il keynesismo di stampo tradizionale: un insieme di interventi in grado di fronteggiare contemporaneamente sia la debole domanda aggregata sia il deficit d’offerta. In altri termini, la grande sfida è la simultanea realizzazione di un mix di politiche di domanda di stampo keynesiano e di politiche in grado di agire dal lato dell’offerta, non in senso neoclassico ma ispirate alla visione Schumpeteriana dello sviluppo, come cambiamento strutturale trainato dal rilancio di investimenti pubblici e privati. Solo mettendo in campo queste rinnovate strategie di investimenti a medio lungo termine sarà possibile rilanciare la crescita delle aree più importanti e, attraverso essa, rispettare i vincoli, sempre più stringenti, derivanti dal necessario consolidamento dei debiti pubblici. Per ora, purtroppo, siamo ben lontani da tutto ciò: negli Stati Uniti, da un lato, si propongono politiche monetarie espansive ‘non convenzionali’ (“quantitative easing”) mentre in Europa, dall’altro, si praticano ottuse politiche di austerità o restrizione della spesa generalizzate. È evidente che le prime – per quanto utili  a stimolare i consumi e in grado comunque di favorire una ripresa – sono destinate a scontrarsi con i vincoli d’offerta e la debolezza degli investimenti, mentre le seconde non possono che aggravare le tendenze recessive.
Il risultato è la trappola in cui siamo oggi imprigionati a livello domestico e internazionale: da un lato, il mercato lasciato a se stesso non è in grado di generare un’adeguata domanda; dall’altro, la necessaria ristrutturazione dell’offerta non riesce a dispiegarsi in assenza di una sufficiente domanda che la sorregga e renda conveniente. Da qui discendono le previsioni di un prolungato ristagno domestico e globale di tutta l’area più avanzata.

D. Dunque un piano di finanziamenti pubblici – tali da agevolare anche il finanziamento privato ma senza attenderli – in grado di correggere i difetti e le difficoltà del sistema economico. Questi interventi possono rispondere quindi a due esigenze di partenza:  quantitative e/o qualitative. Nel caso del nostro paese le esigenze riguardano entrambi gli aspetti dal momento che si è verificato un calo molto forte degli investimenti, ma anche al fatto che sino a pochi anni fa i nostri investimenti industriali erano del tutto in linea e spesso superiori a  quelli dei paesi nostri partner, ma con esiti, sul piano della competitività e dell’occupazione, del tutto insufficienti. Un esito qualitativo che sarebbe da evitare accuratamente
Se questo è il quadro – e prima ancora di arrivare alle questioni del reperimento delle risorse finanziarie necessarie – quali sono i presupposti o i problemi preliminare da risolvere per attuare una politica di investimenti necessariamente selettiva e, quindi, nelle direzioni conseguenti ? . E queste direzioni si possono già indicare in termini ancora generali e quali potrebbero essere? O, forse, è più corretto iniziare indicando le condizioni che occorre rispettare per rendere efficaci quelle scelte e quindi quegli investimenti ?
In sostanza poiché non è automatico in una economia aperta ed integrata, sviluppare la crescita e insieme l’occupazione, aumentando la domanda interna,  come occorre attrezzarsi e prepararsi?

R. Tra gli effetti della grande crisi globale, che sono ben lungi dall’essere stati riassorbiti, vi è l’accelerato ridisegno della mappa delle produzioni a livello mondiale, che va avanti dalla metà degli anni Novanta, sospinto da una grande rivoluzione tecnologica e dall’ingresso di nuovi paesi competitori, soprattutto dall’Asia del Pacifico.
È evidente che per rilanciare stabilmente la crescita nell’area più avanzata non sarà sufficiente produrre ciò che risultava profittevole prima della crisi. I cambiamenti tecnologici in corso, la problematica ambientale e l’ascesa dei paesi emergenti spingono a riallocare le risorse verso nuovi prodotti e settori che siano in grado di soddisfare bisogni privati e pubblici di gamma medio-alta. E’ per questo che a interventi di stampo keynesiano tradizionale, in grado di agire sulla domanda di consumo, andrebbero affiancate – come si è detto – misure volte a fronteggiare i problemi di struttura dell’offerta produttiva lasciati in eredità dalle debolezze del modello di sviluppo prevalso nei due decenni antecedenti la crisi e aggravati dalla crisi stessa.
In altre parole, per tutte le economie avanzate – inclusa l’Italia – lasciarsi alle spalle le conseguenze della grande crisi e rispondere alle sfide dell’economia multipolare significa promuovere investimenti pubblici e privati in aree in grado di agire come “nuovi motori della crescita”,  in comparti quali le  infrastrutture materiali e immateriali, ricerca di base e applicata, tecnologie digitali, energie rinnovabili, sanità, istruzione.
Tali tecnologie, che hanno carattere pervasivo, incidono non solo su cosa si produce ma anche su come lo si produce e richiedono quindi mutamenti profondi nella organizzazione delle imprese e nel funzionamento dei mercati dei fattori. Questo spiega il formidabile contributo che queste tecnologie a diffusione orizzontale possono apportare alla crescita della produttività di tutte le economie avanzate. Si tratta di una constatazione rilevante, soprattutto nell’ ottica del nostro paese, per rispondere alla domanda di come resistere alla competizione dei paesi emergenti che producono, a costi infinitamente più bassi, i beni che per decenni abbiamo prodotto noi. Il sentiero che ci può condurre a una nuova fase di crescita sostenuta e stabile passa in effetti da questi sforzi di ristrutturazione.
Tutto ciò comporta riaffermare quel delicato giusto equilibrio tra mercati e fornitura di beni pubblici che è alla base dell’efficiente funzionamento di un’economia di mercato orientata alla crescita. Un equilibrio che negli ultimi decenni la fase del liberismo ideologico e della globalizzazione senza regole ha spezzato, generando crescenti instabilità, disuguaglianze e una eccessiva concentrazione del potere economico e finanziario nelle mani di una ristretta élite.
È necessario ristabilirlo promuovendo nuove politiche di intervento del tipo prima delineato. Solo mettendo in campo queste rinnovate strategie sarà possibile rilanciare la crescita globale e cominciare a ridurre le disuguaglianze e, attraverso essa, rispettare i vincoli, sempre più stringenti, derivanti dal necessario consolidamento dei debiti pubblici. Solo un ritorno alla creazione di ricchezza e occupazione può in effetti assicurare nell’area avanzata il graduale riassorbimento dell’eccesso di debiti esistente.

D. Dopo la stagione “poco fortunata” delle riforme del mercato del lavoro,  si stanno cercando cause più convincenti e dimostrabili del nostro declino, un processo negativo che nasce e si protrae da ben prima della crisi internazionale. Anche il recupero recente di un valore positivo della nostra bilancia commerciale è il frutto di una riduzione delle nostre importazioni, più che di un aumento delle esportazioni. La nostra scarse e calante competitività, che ormai viene chiamata in causa per giustificare le riforme, secondo te da cosa dipende?  E come andrebbe combattuta?

R. Vi sono molteplici fattori alla base delle grave perdurante crisi italiana, che ha assunto ormai da tempo le caratteristiche di un graduale ma drammatico declino. Molti di essi sono di antica data, in quanto legati a problemi strutturali che affliggono da tempo l’economia italiana. Il dato negativo che in qualche modo li riflette e sintetizza tutti è rappresentato dal ristagno della produttività in Italia, in particolare della cosiddetta produttività totale dei fattori. Esso ha mostrato, soprattutto nell’ultimo decennio, un andamento particolarmente negativo nel caso dell’Italia, soprattutto se comparato ad altri paesi. Ne consegue che solo un deciso miglioramento del trend della produttività italiana nei prossimi anni potrà consentire di rilanciare la crescita e innalzarne la dinamica futura.
A questo fine serviranno sia riforme importanti all’interno in grado di rimuovere le rigidità strutturali prima ricordate, sia un deciso miglioramento della congiuntura europea e internazionale.
Sul primo versante – ovvero gli interventi per rimuovere i fattori strutturali che frenano la crescita della nostra economia –  è necessario mettere in campo una molteplicità di interventi che interessano due ambiti ugualmente rilevanti e strettamente intrecciati. Da un lato le politiche volte a rendere più efficiente e modernizzare l’ambiente esterno in cui il sistema produttivo e le imprese operano creando adeguate positive esternalità di contesto (infrastrutture materiali e immateriali, organizzazione pubblica amministrativa, approvvigionamenti energetici e così via). Dall’altro, le misure volte a incidere direttamente sulla vita delle imprese per superare le debolezze esistenti (ridotta dimensione, diversificazione tecnologico-produttiva, organizzazione e innovazione, internazionalizzazione, servizi, mercato del lavoro).
In questo secondo caso ci troviamo di fronte a una vera e propria emergenza. E’ in corso una sorta di profonda erosione della nostra base industriale. Dall’inizio della crisi l’Italia ha perso il 15% della base manifatturiera e il 25% della produzione industriale. Cercare di fermarla è fondamentale per agganciare la ripresa europea. Per quanto riguarda il sistema produttivo  significa intervenire su due ordini di fattori: dimensioni troppo piccole delle nostre imprese e specializzazioni inadeguate di questo comparto a causa di una debole presenza nelle aree geografiche più dinamiche e nelle attività a più elevate opportunità tecnologiche.
Sono necessarie in primo luogo politiche, soprattutto industriali, rivolte alla produzione e alla ricerca che aiutino le nostre imprese ad aggregarsi, a innovare, a internazionalizzarsi. E’ vero che in questi anni si è verificato un deciso rafforzamento della presenza di imprese italiane, soprattutto quelle di media dimensione, sui mercati interni e internazionali. Si è trattato, tuttavia, di un processo di ristrutturazione del tutto spontaneo e privo del  sostegno di politiche economiche e industriali in grado di guidarlo e consolidarlo. I suoi effetti complessivi sono stati così limitati. Il gruppo di imprese di successo, per quanto in crescita, non è abbastanza numeroso per compensare le performance negative di quell’elevatissimo numero di piccole e piccolissime unità che sono troppo fragili e sottocapitalizzate per affrontare positivamente le nuove sfide dei mercati globali.
Riguardo a questo gruppo di imprese in difficoltà, bisognerebbe soprattutto promuovere con politiche adeguate i cambiamenti strutturali necessari per affrontare con successo la concorrenza futura, che vanno avviati subito anche se avranno effetti inevitabilmente differiti nel tempo. Ne fanno parte a pieno titolo i cosiddetti ‘nuovi motori’ della crescita e dell’occupazione, di cui abbiamo parlato prima. L’occasione da cogliere è quella di colmare vistosi ritardi della nostra economia rispetto agli altri paesi avanzati indirizzando lo sviluppo in nuove direzione, più improntate a fattori quali la ‘conoscenza’ e la sostenibilità.
Ora, la complessità dei problemi da fronteggiare richiederebbe di inserire gli interventi richiesti – pur rimanendo ben all’interno di una logica di mercato –  in un disegno complessivo unitario di politica economica ed industriale, dall’orizzonte pluriennale in grado di assicurare coerenza interna e efficacia a lungo termine di tali interventi.  Uno sforzo che è reso ancor più necessario dalla scarsità delle risorse finanziarie pubbliche disponibili. E’ proprio questa visione d’insieme e di medio periodo dei problemi da affrontare, tuttavia, che è sempre mancata nell’azione degli ultimi Governi in questi ultimi due anni e mezzo e che continua a destare anche oggi le maggiori preoccupazioni visto il perdurare dei fattori di crisi.

D. A  fronte della crisi e delle difficoltà nella costruzione dell’Unione europea – a parte i distruttori dell’Unione – molti si rivolgono verso ipotesi di una maggiore integrazione,  incominciando dalla politica finanziaria, dalle politiche per l’occupazione, da una ancora incerta interpretazione della flessibilità dei vincoli di bilancio.
Ma in linea generale le difficoltà dell’Unione stanno anche e in buon misura nei divari economici e sociali esistenti tra paesi che traducono storie molto diverse. Una  maggiore ampiezza delle politiche comunitari attraverso la sola flessibilità, se non prevede e non indica esplicitamente il superamento di questi divari, potrebbe non avere alcun effetto positivo, ma potrebbe, invece, riprodurre e, forse, accrescere quelle divergenze. L’esperienza del nostro Mezzogiorno dovrebbe farci riflettere. Se poi quegli obiettivi del superamento dei divari nello dello sviluppo non vengono nemmeno espressi, sembra difficile indicare quali strumenti e quali riforme dovrebbero portare a quello sviluppo che, a parole, sembra che nessuno intenda negare. Secondo te è in questo senso che occorre interpretare le parole del nostro Primo Ministro quando afferma che le riforme le dobbiamo fare noi e non perché ce le domanda l’Unione? E quali riforme rispondono maggiormente a questo obiettivo?

R. Se tornare a crescere rende necessario per l’Italia un percorso di riforme unite a una nuova strategia di politiche industriali  attraverso uno sforzo che deve durare nel tempo – come si è detto prima -, è altrettanto evidente che fare bene i ‘compiti a casa’ non sarà sufficiente. L’interazione con l’Europa e l’area dell’Euro, in particolare, è fondamentale perché l’Italia possa ritrovare un sentiero di crescita sostenuta e duratura. Un’Europa, tuttavia, diversa, da quella manifestatasi in questi ultimi anni: un’area in profonda crisi e sempre più divisa fra paesi creditori e debitori, e che ha visto aumentare disoccupazione, disuguaglianze e povertà.
La crisi dell’euro – com’è noto – è parte di una crisi finanziaria globale, ma è soprattutto il risultato dell’applicazione di una terapia di stretta ortodossia neoclassica – le politiche restrittive cosiddette di austerità –  legata a una diagnosi altrettanto tradizionale, in cui la causa scatenante la crisi è rinvenuta nell’eccesso di debiti pubblici, frutto delle irresponsabilità fiscali dei singoli paesi più indebitati. Ma non era così – com’ è poi stato riconosciuto da molti – dal momento che le vere cause furono la crisi del sistema bancario europeo e l’eccesso di indebitamento privato, resi ingestibili dalle debolezze istituzionali e di sistema dell’Unione monetaria.
La diagnosi inadeguata ha portato a prescrivere alla maggioranza dei paesi dell’euro politiche restrittive all’insegna dell’austerità che li hanno spinti in un circolo vizioso, in cui aumenti di tasse e riduzioni di spesa pubblica – un po’ ovunque nei paesi della periferia – hanno depresso il reddito prodotto e fatto salire il rapporto Debito/PIL. Se dovesse continuare la cura ortodossa –  e a breve non si profilano ricette alternative – la prospettiva oggi più realistica è un prolungato ristagno deflazionistico per molti paesi europei, stile Giappone anni ‘90, con tassi di crescita di poco superiori allo zero e elevatissima disoccupazione.
Uno scenario macroeconomico così preoccupante verrebbe accompagnato da un ampliamento della distanza che separa oggi i paesi forti (Germania, Austria e Olanda in primo luogo) da quelli deboli (economie dell’area meridionale, inclusa quella italiana). Sono aspetti che si intrecciano tra loro. Bisogna tener conto, infatti, che il ristagno è anche il riflesso di un modello di crescita che in molti paesi – innanzitutto in Germania – è trainato per lo più dall’export e dalla domanda esterna. È un modello che, necessariamente, assume le connotazioni di un gioco a somma zero: alcune economie dell’area euro ne traggono beneficio (in testa la Germania) mentre altre vengono penalizzate (soprattutto i paesi della periferia dell’eurozona).
Per uscire da questa trappola del ristagno e della deflazione, un’alternativa, in realtà, esiste. Il sostegno alla crescita europea è oggi un problema di supporto alla domanda e allo stesso tempo di necessaria ristrutturazione dell’offerta. Un nuovo ciclo di sviluppo sostenibile nell’area europea richiede a medio termine significativi incrementi della produttività, che a loro volta richiedono una forza lavoro più istruita e competente, un contesto produttivo più favorevole all’innovazione tecnologica e alle energie rinnovabili, riduzione delle disuguaglianze e rinnovata equità nella distribuzione del reddito, infrastrutture materiali e immateriali più efficienti.  Per realizzarle servono in Europa sostegni alla domanda – come abbiamo già detto – attraverso investimenti a medio e lungo termine, pubblici e privati, in tutta una serie di comparti (istruzione, ricerca, scienze della vita, digitalizzazione, mobilità sostenibile, e altre) che unite a riforme strutturali nei singoli paesi possono trasformarsi in nuovi motori della crescita sostenibile.
Allo stesso tempo tra gli strumenti chiave d’intervento devono figurare in primo piano meccanismi a livello europeo che sappiano ripartire più simmetricamente di quanto avvenuto fin qui gli oneri di aggiustamento tra paesi in deficit e paesi in surplus; e, poi, servono investimenti europei in infrastrutture e settori a rete, che si possono finanziare sia attraverso il bilancio comunitario, nel nuovo quadro finanziario pluriennale, sia attraverso la Banca Europea per gli investimenti (Bei) e i project bond.
Uno scenario alternativo è dunque configurabile, ma si deve imperniare su un mix di politiche più equilibrato e in grado di rilanciare la crescita e l’integrazione delle economie europee. Solo in questo modo si può pensare di colmare l’esistente gap tra Nord e Sud in Europa. Il che comporta più Europa, dunque, che significa più integrazione economica e, a medio-lungo termine, unione politica. Va in effetti riconosciuto che in Europa gli Stati nazione non hanno più gli strumenti per fronteggiare la crisi e governare le loro economie, perché sono troppo piccoli nella nuova economia-mondo. E salvaguardare e rilanciare il modello sociale e democratico europeo sarà possibile solo in un’ottica europea. Per questo è importante – oltre alle misure economiche – un rafforzamento anche dei meccanismi democratici e rappresentativi.

D. L’ultima domanda si riferisce alla questione delle risorse finanziarie. Credo che su un aspetto quantitativo si è tutti d’accordo e cioè sul fatto che non avrebbe senso programmare una politica keynesiana dosandola con il contagocce. Investimenti calibrati in dosi omeopatiche equivarrebbero non ad un fallimento ma ad un fallimenti ed ad uno spreco insieme. Detto questo come e dove reperire le risorse necessarie ….? 

R. E’ certamente vero che una strategia di investimenti a medio e lungo termine a livello europeo e nazionale, come delineata fin qui, necessita di risorse finanziarie ingenti.  Ma non credo sia questo il vero ostacolo, perché tali risorse esistono e si possono trovare, volendolo.
A livello europeo, ad esempio, è possibile reperire nuove ingenti risorse sui mercati finanziari mediante un’ampia gamma di scelte, che vanno da emissioni obbligazionarie come gli euro-bond e gli euro-project ai fondi gestiti dalla Banca europea degli investimenti. Non dimentichiamo che il livello di indebitamento dell’Unione europea è pressoché zero e c’è una potenziale forte domanda di titoli in euro sui mercati internazionali.
Anche modifiche di regolamentazioni finanziarie europee, oggi vessatorie degli investimenti a medio e lungo termine e incentivanti la vista corta della speculazione finanziaria, potrebbero fornire significativi nuovi spazi finanziari. Tanto più che siamo in una fase di enorme liquidità e denaro a costi estremamente bassi o addirittura azzerati, e quindi estremamente favorevole per chi vuole indebitarsi per investire. Per realizzare tutto ciò serve naturalmente una volontà politica e un senso di condivisione di una prospettiva comune tra i paesi europei. Su entrambi i fronti l’Europa è oggi carente.
Anche a livello nazionale si potrebbero introdurre forme di golden rule negli accordi europei sulle politiche di consolidamento fiscale da realizzare, come il fiscal compact, così da concedere spazi di finanziamento per investimenti nazionali di tipo strategico e favorevoli al rilancio della crescita. Sono altresì realizzabili politiche di ricomposizione dei bilanci pubblici dei singoli paesi attraverso ristrutturazione della spesa pubblica (spending review) così da ridurre la spesa corrente in favore di più spese in conto capitale.
Nel caso specifico del nostro paese il finanziamento delle infrastrutture ha subito, a causa di risorse pubbliche scarse, un forte rallentamento tanto che nell’ultimo decennio la spesa per questo tipo di lavori è diminuita del 35%. Dal momento che la scarsità di risorse continuerà a caratterizzare con molta probabilità anche i prossimi anni, si possono  sperimentare e mettere in campo nuovi modelli per il finanziamento delle infrastrutture, in grado di attirare il risparmio ed i capitali privati di lungo periodo, come fondi pensione e assicurazioni vita.
Insomma, il problema del perché non si fanno gli investimenti necessari non deriva da una carenza di risorse finanziarie, che come ho ricordato si possono reperire in vari modi. Il problema ha natura politica. L’attuale contesto politico in Europa e nel nostro paese non è favorevole, per una molteplicità di ragioni, a forti incrementi di questo tipo di spese a lungo termine, sia pubbliche che private. Gruppi di interesse potenti e ben organizzati ostacolano la formulazione di tali misure e la loro realizzazione. Come aggirarli meriterebbe certamente ulteriori approfondite considerazioni ma mi fermo qui perché altrimenti questa intervista diventa davvero troppo lunga.