Search
banner_header_paolo_guerrieri

La (dis)Unione bancaria europea: più vincoli meno solidarietà

Pubblicato su L’Unità

Sull’Unione bancaria il summit europeo conclusosi in settimana ha compiuto un passo nella giusta direzione per assicurare nel 2025 un fondo salva-banche unico, uno strumento assai utile quando i Paesi dell’euro saranno usciti dalla crisi e opereranno in un’area monetaria pienamente integrata. Nessun accordo, tuttavia, è stato raggiunto per una gestione comune delle crisi bancarie nella prolungata fase di transizione da qui alla metà del prossimo decennio. L’esito del vertice, nel ribadire le profonde divisioni esistenti in Europa, non appare in grado di aiutare oggi l’area euro a uscire dalla sua perdurante crisi. Anzi, per certi versi i processi di aggiustamento dei Paesi più indebitati e in difficoltà, come il nostro, potrebbero complicarsi ulteriormente. Una ragione in più per moltiplicare gli sforzi di aggiustamento sul piano interni.
In tutti i grandi Paesi, a partire dagli Stati Uniti, il meccanismo di risoluzione delle crisi (SRM) svolge un ruolo fondamentale per il buon funzionamento di un sistema bancario unificato. La sua efficacia si fonda su due pilastri: un forte centro decisionale in grado di realizzare pronti interventi, da un lato, e un ammontare di risorse proprie adeguato a sostenere le decisioni assunte, dall’altro. Su entrambi i fronti l’accordo raggiunto in sede europea si presenta assai deludente. Sul meccanismo decisionale si è messo in piedi un complicatissimo e frammentato sistema composto a vari livelli da autorità nazionali e europee che non appare in grado di assicurare la necessaria tempestività di decisione. Altrettanto carente è il secondo pilastro ovvero il fondo unico salva-banche, finanziato con prelievi sulle banche nazionali ma che entrerà in vigore solo nel 2025. Dieci anni per l’implementazione del SRM sono un tempo davvero infinito: se in questa fase di transizione dovesse esplodere una crisi si dovrà fare ricorso per fronteggiarla solo a risorse nazionali. È stato in effetti rinviato a data da destinarsi – come ha voluto la Germania – la discussione del paracadute comune (backstop) richiesto dall’Italia e da altri Paesi a cui attingere dopo l’auto-salvataggio o bail-in delle banche che assegna le perdite ad azionisti, obbligazionisti e grandi depositi.
Stabilendo che a breve e medio termine i costi debbano essere sostenuti in primo luogo dal settore privato e dai bilanci pubblici nazionali l’accordo raggiunto ha rinunciato di fatto a recidere quel legame perverso tra crisi bancarie e crisi dei debiti sovrani, che era uno dei suoi obiettivi fondamentali. Anche la rinazionalizzazione dei mercati finanziari e il ripiegamento su scala nazionale operato dalle banche europee come reazione ai rischi legati alla crisi non verranno minimamente scalfiti. E così le forti differenze nel costo del denaro oggi esistenti in Europa.
Al di là di qualche segnale positivo, l’esito del Consiglio europeo è stato in definitiva deludente: un’ennesima conferma delle forti divisioni esistenti all’interno dell’area euro e del ruolo dominante oggi svolto dalla Germania. Il governo tedesco guidato per la terza volta dalla Merkel e sorretto dalla «Grande coalizione» ha ribadito anche in questa nuova veste il proprio approccio tradizionale: ogni deciso rafforzamento dell’integrazione economica e politica in Europa va rinviato a quando la crisi sarà superata e si sarà realizzato un effettivo processo di convergenza tra i Paesi membri. Un disegno impeccabile ma che omette di riconoscere che una maggiore integrazione e solidarietà dei Paesi dell’area euro rappresenta il presupposto necessario per favorire efficaci processi di convergenza e una sostenibile uscita dalla crisi.
In effetti, a ben vedere è stata proprio la mancanza di solidarietà dell’Europa a ispirare le fallimentari politiche di austerità fin qui perseguite, che hanno scaricato interamente sulle spalle dei Paesi debitori l’onere dell’aggiustamento, generando ristagno, disoccupazione e conseguenti aumenti degli stock di debito.
A questo riguardo suona impietoso un confronto con gli Stati Uniti e con i dati sulla crescita americana pubblicati ieri. Mentre in Europa, dopo due recessioni in cinque anni, si profila un ripresa assai modesta (intorno all’1%), il Pil americano nel terzo trimestre 2013 è salito del 4,1% e il presidente Barack Obama ha indicato il 2014 come «l’anno di svolta» per l’economia e l’occupazione americane. Al di là dei diversi «modelli economici», certo importanti, sono le ricette opposte applicate durante la crisi dalle due sponde dell’Atlantico a spiegare in larga misura queste marcate differenze.
Ora l’amara constatazione di quanto poco ci si possa attendere da un’Europa siffatta oltre che aumentare l’impegno del nostro Paese a livello europeo per modificare l’approccio fallimentare fin qui seguito, deve spingerci a raddoppiare gli sforzi sul fronte domestico. Vanno messe in campo al più presto a partire da gennaio – nella nuova agenda 2014 che verrà varata dal governo Letta – quelle misure e riforme economiche in grado di permetterci di agganciare la ripresa che si sta profilando. A partire dal nuovo anno qualcosa dovrebbe cambiare che porterà il Pil in positivo. Anche se è innegabile questo miglioramento, è altrettanto vero che senza interventi forti, decisi, rimarremo nelle condizioni di ristagno in cui siamo impantanati da tempo, mentre va ribadita la necessità imprescindibile di trasformare una ripresa per ora modesta in una vera e propria fase di crescita.