Ancora una volta emerge il nome di un economista che combina rigore nel metodo e obiettivi eterodossi; sullo sfondo la necessità di innovare la scienza economica a sette anni dallo scoppio della grande crisi. Si impongono all’attenzione il tema della povertà e della diseguaglianza in aumento. Manca ancora, però, un forte pensiero sistematico in grado di sfidare il paradigma ortodosso, ne abbiamo parlato con Paolo Guerrieri (di Luca Gaballo 12 ottobre 2015)
“Il mio attuale campo di ricerca intende mettere a fuoco le determinanti della salute nei paesi ricchi e nei paesi poveri, così come la misurazione della povertà in India e nel mondo in genere. Continuo a riservare grande interesse nell’analisi del consumo delle famiglie”. Con questa frase sul suo sito web il nuovo premio nobel per l’economia, il sessantanovenne Angus Deaton presenta se stesso. Scozzese di origine, cattedra a Princeton, si è distinto per l’interesse riservato ai temi della povertà e della diseguaglianza. Il suo ultimo libro, “The Great Escape,” è una mappa delle origini della diseguaglianza e le sue conseguenze in 250 anni di storia. “Per disegnare politiche economiche che promuovano il benessere e riducano la povertà, dobbiamo prima comprendere i meccanismi di scelta che indirizzano il consumo individuale” dice la motivazione “più di chiunque altro, Angus Deaton ha ampliato la comprensione di questi fenomeni”. L’Accademia di Svezia intende sottolineare quanto importanti sono ricerche di questo tipo per guidare le politiche del futuro. Noi ne abbiamo parlato con Paolo Guerrieri, docente di economia internazionale all’Università la Sapienza di Roma, senatore del Partito Democratico.
Professor Guerrieri, il Nobel a un ricercatore eterodosso nella scelta dei temi ma rigoroso nel metodo e versato nella ricerca empirica cosa ci dice dello stato del dibattito economico internazionale a sette anni dallo scoppio della grande crisi?
Innazitutto è il riconoscimento, in questa fase storica, di problemi, come sappiamo, di straordinaria, drammatica attualità come la diseguaglianza e la povertà. Sono temi che possono essere affrontati da molte angolazioni, Deaton le ha affrontate soprattutto servendosi di un poderoso apparato micro economico e della teoria dei prezzi, conducendo analisi di stampo eterodosso, questo per quanto riguarda il contenuto. Per quanto riguarda il riconoscimento del filone certamente è un filone importante, quello che coniuga un approccio teorico con una forte finalità empirica. Un approccio che oggi è presente assieme ad altri a rappresentare una situazione di transizione, io la chiamerei così, della teoria economica. Nel senso che la grande crisi del 2008-2009 ha fatto a pezzi, letteralmente, quello che era stato l’approccio dominante, il paradigma neoliberista imperniato su una visione di mercati e attori perfettamente efficenti, razionali in grado sempre di garantire soluzioni ottimali. La crisi ha spazzato via questo modello ma non si può dire che sia subentrato qualcosa di alternativo o di diverso.
Una grande differenza rispetto alla crisi del 29 che sancì il predominio del pensero keynesiano che guidò le scelte di politica economica nei decenni successivi.
Certamente è una differenza profonda perché negli anni ’30 ci fu il passaggio da quella che era stata l’economia liberale, anche quella intesa come una economia di mercati perfetti e sempre in grado di autoregolarsi, verso l’economia keynesiana e quindi verso un nuovo paradigma in cui soprattutto la macroeconomia, gli equilibri di sistema vennero a sostituire il paradigma in voga fino agli anni ’20. Oggi non è successo così, non si può, appunto, parlare di una affermazione di visioni teoriche in qualche modo alternative. Quello che sta succedendo è una fase di transizione, un orizzonte frammentato, in cui ci sono e vengono offerte una serie di proposizioni che si pongono e si vorrebbero porre come nuove ma io credo, che il paradigma dominante continua ad essere quello pre-crisi. C’è un po’ il tentativo, soprattutto da parte di una serie di economisti ortodossi, come dire, di riprendersi la scena facendo finta che nulla di irreparabile sia accaduto e in qualche modo si possa andare avanti come prima. Ma è un tentativo molto difficile perché in realtà noi vediamo che la situazione economica è tutt’altro che risolta, siamo molto lontani dall’aver ristabilito una dinamica di crescita che possa appagare.
In questa fase, dunque, in mancanza di un nuovo paradigma di pensiero forte emergono queste figure di ricercatori empirici, un bagno di umiltà per la scienza economica?
Si sono aperti degli spazi in cui si possono inserire analisi come quelle di Deaton, non dimentichiamo che l’anno passato è stato segnato dal trionfo, non sul piano dei Nobel, ma sul piano dell’attenzione a livello addirittura mondiale del tema della distribuzione della ricchezza, con l’enorme successo del libro di Thomas Picketty e quindi sulle grandi leggi che regolano la produzione e la distribuzione della ricchezza e sulle profonde diseguaglianze sociali che ne derivano. Questi fenomeni dimostrano che c’è una grande necessità di idee nuove. E’ un dato positivo da segnalare in questa fase di transizione della scienza economica. Quel che resta difficile è che da questa sorta di frammentazione e di varietà di spunti, anche eterodossi, emerga un pensiero in grado di rinnovare veramente la scienza economica e aggiornare il paradigma tradizionale. La somma di tutti questi approcci non fa un sistema alternativo che possa diventare dominante e guidare le grandi scelte di politica economica. Per molti anni l’Economista dovrà sviluppare un notevole eclettismo, per carità l’eclettismo richiede anche un grande rigore, proprio perché è necessario fare ricorso a fonti relativamente diverse. Anche se, lo ripeto, a livello di tendenze generali, credo che il paradigma dominante sia cambiato ben poco. Lo vediamo anche nella nostra cara Europa dove il paradigma dominante resta legato a teorie strettamente ortodosse.