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Il rilancio della nostra economia passa per l’Europa

Pubblicato su L’Unità

L’ultimo Consiglio europeo e gli incontri a Parigi e Berlino del Presidente Renzi se hanno confermato da un lato la dura realtà degli equilibri di potere oggi imperanti in Europa, hanno anche fornito al nostro governo preziose indicazioni per la strategia di politica economica da definire nelle prossime settimane. A condizione che vengano lette correttamente e, soprattutto, si traducano in scelte e iniziative all’altezza delle sfide esistenti. La fiducia europea e dei mercati verso il nostro Paese dipenderanno da queste.
Una prima indicazione emersa è la conferma di una situazione di fatto per noi assai rilevante: il rilancio economico dell’Italia ha bisogno della crescita in Europa, ma altrettanto fondamentale per la stabilità e il futuro della moneta unica europea è un’Italia rinnovata, in grado di riprendere un sentiero di sviluppo. Se si parte da qui, si può meglio comprendere la duplice sfida di fronte oggi al nostro Paese: realizzare all’interno le riforme necessarie a aumentare il nostro potenziale di crescita che si è praticamente azzerato negli anni della Grande Crisi, da un lato; poter guadagnare maggiore flessibilità nelle modalità e tempi delle politiche di aggiustamento in Europa, cercando allo stesso tempo di promuovere un nuovo corso delle politiche economiche europee.
È un percorso che sarà scandito da svariati appuntamenti e scadenze da gestire con grande saggezza. L’apertura si è avuta con la presentazione delle prime misure di rilancio del governo Renzi, incentrate sulla riduzione dell’Irpef e dell’Irap. La direzione è indubbiamente giusta, dal momento che tagliare le tasse ai redditi più bassi ha buone ragioni sia di convenienza economica, come primo argine al calo in corso da anni della domanda interna; sia di convenienza politica come prima risposta alle montanti disuguaglianze che la grande crisi ha fortemente contribuito a aumentare. Se si tiene conto di tutti i provvedimenti di spesa promessi, tuttavia, l’ammontare di risorse da mobilitare è ingente e ha posto un problema di coperture finanziarie, ancora tutto da definire.
Unitamente a una prima tranche della «spending review» (da 3 a 5 miliardi di euro) ed a alcune entrate «una tantum» il governo ha affacciato l’ipotesi di un aumento del deficit pubblico, seppur rimanendo sotto il tetto europeo del 3% nominale. Ma a Bruxelles è emerso chiaramente che si tratterebbe, in quest’ultimo caso, di una violazione delle nuove regole della governance dell’Ue incentrate sul deficit strutturale (Fiscal Compact e Six Pack). La Commissione, già dallo scorso novembre, ci ha invitato a ridurlo per far scendere lo stock di debito. È facile prevedere che se decidessimo di andare avanti si aprirebbe un contenzioso con le istituzioni europee, col rischio di uscirne sconfitti e accumulare in prossimità dell’estate un’ulteriore infrazione, dopo quella recente per squilibri eccessivi.
Sono in molti a ritenere che molte di queste regole siano gestite con troppa rigidità (si veda ad esempio la definizione di saldo strutturale) e che andranno rimesse in discussione. Ma andrà fatto più avanti, dopo le elezioni europee allorché si saranno insediati un nuovo Parlamento e una nuova Commissione. Oggi non ne vale la pena, per guadagnare pochi decimi di punto, anche perché i mercati potrebbero reagire male, rialzando lo spread e annullando qualsiasi beneficio. È meglio cercare altre coperture all’interno, compatibili con i vincoli comunitari. Sarà compito del Documento di economia e finanza (Def) indicarle, allorché a metà aprile verrà presentato al Parlamento e all’Europa. Il Def avrà un secondo compito altrettanto importante – come seconda tappa del confronto con l’Europa – quello di delineare un piano dettagliato di riforme radicali per la modernizzazione dell’economia e il rilancio della crescita. Non dovrà essere un mero lungo elenco delle cose da fare, quanto l’individuazione di alcune priorità, chiare e verificabili, anche quantitativamente, in grado di incidere significativamente sulla crescita potenziale del nostro Paese che è la vera leva su cui poggiare ogni piano di rientro sostenibile dallo stock di debito.
Convincere i partner europei che queste misure strutturali siano serie, realizzabili e in grado di accrescere il Pil favorendo così la discesa del nostro debito è l’obiettivo chiave a cui mirare. Ne va della possibilità di negoziare con l’Europa margini di flessibilità consistenti su tempi e modalità delle politiche di aggiustamento, soprattutto in prospettiva dell’entrata in vigore del Fiscal compact. Tutto ciò rafforzerebbe anche la nostra posizione nel semestre di presidenza italiana dell’Europa, allorché dovremo cercare di rilanciare – come terza fase del negoziato europeo – una strategia di crescita dell’Europa, che sia profondamente innovativa e alternativa al ristagno generato dalle fallimentari politiche di austerità. Sono cambiamenti difficili ma non impossibili da introdurre, in particolare all’indomani di probabili deludenti risultati delle elezioni europee, che spingeranno a rimettere in discussione l’Europa del ristagno e dei profondi squilibri tra Nord e Sud.
Certo è una partita complessa quella che si è aperta tra l’Italia e l’Europa, ove ogni mossa affrettata da parte nostra potrebbe generare errori e pregiudicare il risultato finale. Andrà evitata a partire dalle decisioni e dalle scelte da prendere nelle prossime settimane. Come si è detto, ne va del nostro ruolo e della nostra credibilità in Europa.