Pubblicato su l’Unità – L’euro è salvo ma la situazione economica di molti Paesi europei resta a dir poco drammatica, con ventisette milioni di disoccupati, appena sfiorati dalla fragile ripresa in corso. Si potrebbero fotografare in questo modo le condizioni dell’Europa alla vigilia delle elezioni del 25 maggio. Si teme un massiccio voto di protesta a favore dei partiti e movimenti in varia misura euroscettici. Potrebbe trasformarsi in uno shock salutare a condizione che riesca a produrre una profonda discontinuità nelle politiche e strategie fin qui adottate. La crisi dell’euro, intesa come rischio di una sua definitiva implosione, è ormai alle nostre spalle. Almeno così sembrano aver deciso i mercati finanziari che nell’ultimo anno e mezzo hanno assicurato una sorprendente stabilità e un abbassamento degli spread ai livelli precedenti la crisi. La spiegazione di tutto ciò sta, innanzi tutto, nel piano della Bce deciso a metà del 2012 a favore dell’acquisto in quantità illimitata di titoli del debito pubblico dei Paesi più in difficoltà. Per fronteggiare la crisi di liquidità di molti Paesi, serviva un prestatore di ultima istanza e, pur con due anni di ritardo dallo scoppio della crisi, il programma di Mario Draghi e della Bce, sostenuto politicamente da Angela Merkel, è pienamente servito allo scopo. Senza finora spendere un euro, è riuscito a convincere i mercati che la sopravvivenza della moneta unica non era più in discussione e che nessun Paese avrebbe dovuto abbandonare l’euro. Pur se i rischi di future turbolenze finanziarie non sono certo azzerati, è altamente probabile che non si tornerà più agli stratosferici livelli di spread dei primi anni della crisi europea. L’euro è in salvo, dunque. Non lo sono, tuttavia, la maggior parte delle economie europee. Dopo oltre sei trimestri di recessione, sperimentano oggi una fragile e modesta ripresa, del tutto insufficiente a ridurre i livelli record raggiunti dalla disoccupazione. Assai poco giustificato appare, peraltro, l’ottimismo che si è diffuso – anche a Bruxelles – sulle possibilità che la ripresa si trasformi rapidamente in un percorso di crescita stabile e elevata. Se è vero, in effetti, che in questi ultimi due anni si è registrato un relativo processo di aggiustamento all’interno dell’area euro; è altrettanto vero che l’onere si è interamente riversato sulle spalle dei Paesi in disavanzo e più indebitati. Le conseguenze negative sono state, prima, un effetto deflazionistico e recessivo; poi, nella fase presente, processi di ristrutturazione dei paesi più indebitati basati su svalutazioni interne e una ripresa tutta trainata dalle esportazioni. È una base troppo fragile – anche tenuto conto delle pronunciate tendenze deflazionistiche in corso – per innescare un sentiero di crescita sostenibile e rilanciare l’occupazione. In queste condizioni la prospettiva più realistica è quella di un lungo ristagno dell’area europea, che potrebbe prolungarsi per tutto il decennio in corso, con due maggiori rischi correlati: la necessità di ristrutturazioni di qui a qualche tempo degli enormi stock di debito accumulati dai Paesi periferici; l’ulteriore rafforzamento dei partiti e movimenti nazionalistici ed euroscettici, a partire dalle prossime elezioni di fine maggio. Per fronteggiare scenari così inquietanti la soluzione non può essere certo rappresentata – come rivendicato oggi da molti gruppi euroscettici – dall’uscita di singoli Paesi dall’area euro o dal totale smantellamento della moneta unica. I costi sarebbero drammatici in entrambi i casi. La soluzione in realtà non è uscire dall’euro ma uscire dalle politiche sbagliate condotte finora, marcando una profonda discontinuità. In particolare, serve innalzare la dinamica reale di crescita dell’area euro nel suo insieme – rispetto alle modeste tendenze in corso – di almeno un punto o un punto e mezzo in termini percentuali. A questo scopo è richiesta un’energica azione di intervento simultaneamente su tre fronti. Processi di aggiustamento più simmetrici tra Paesi in deficit e Paesi in surplus; il completamento dell’unione bancaria, con un meccanismo effettivamente comune di finanziamento e risoluzione delle crisi bancarie; in terzo luogo la creazione di una capacità fiscale autonoma dell’area euro che permetta anche la realizzazione di investimenti comuni a livello europeo in servizi e infrastrutture strategiche. Per rinnovare le politiche è necessario, tuttavia, rinnovare anche i luoghi dove esse vengono decise. A questo scopo è necessaria una governance più equilibrata e meno dipendente dal potere del Consiglio europeo e dei Paesi più forti (leggi Germania), che hanno preso in questi anni tutte le decisioni più importanti. Le candidature alla presidenza della Commissione dei leader delle principali famiglie politiche europee rappresentano un primo passo nella giusta direzione. Ma serve di più. Un maggiore ruolo e presenza politica sia della Commissione che del Parlamento europeo, ad esempio, potrebbero favorire un deciso rafforzamento dei meccanismi democratici e rappresentativi in Europa. Certo, non sarà facile, in un’era di euroscetticismo crescente. Ma bisogna far presto, prima di vedere definitivamente compromesse le prospettive future dell’intero progetto di integrazione europea.